Il litorale andaluso, in Spagna, si è rivelato una buona meta per una trasferta fuori stagione. Ciò grazie alla mitezza del clima, alla presenza di tratti di costa rocciosa adatti a partire da terra, a una buona quantità di pesce e, non ultimo, ai costi contenuti. Servono solo buone gambe, perchè le distanze da percorrere (a piedi e a pinne) sono in qualche caso notevoli, nonchè uno studio attento delle maree per poter gestire nel modo migliore le correnti tipiche della zona
Alberto Martignani
Per anni ho coltivato l’abitudine d’ interrompere il forzato ozio invernale con almeno un paio di week-end lunghi di pesca in Costa Azzurra, una meta allora ideale per la vicinanza, la bontà del clima e la bellezza della costa. Poi, in seguito all’ inevitabile decadere delle motivazioni, un pò perchè il pesce non era più abbondante come una volta, un pò in quanto, ormai, non avevo quasi più posti nuovi da scoprire, mi sono trovato nella condizione di voler cercare una nuova e stimolante meta invernale.
L’ho trovata nell’Andalusia meridionale, caratterizzata, in inverno, da un clima ancora migliore di quello della Provenza, soprattutto sul lato atlantico, con temperature diurne che, a dicembre e gennaio, possono superare per diversi giorni i 20 gradi.
I collegamenti aerei, con gli aeroporti di Siviglia e Malaga, sono buoni e i costi del soggiorno molto competitivi rispetto a quelli italiani e, ancor più, francesi. Vi è la possibilità di trovare sempre ridossi che, spostandosi in auto di qualche decina di chilometri,
consentono di scendere in acqua quasi in ogni condizione, con la sicurezza d’incontrare sempre qualche pesce. Il che non significa che catturarlo sia facile e scontato. Anche da queste parti si rivela infatti spesso mobile e imprevedibile, e giornate di magra possono sempre capitare. Ogni volta che vado, oltre a tornare a visitare i posti già noti, cerco di scoprirne almeno un paio di nuovi, in modo da approfondire ed estendere la conoscenza di questa bellissima regione.
Vi illustrerò in questo articolo un paio di zone che si trovano agli opposti estremi del tratto di costa che batto normalmente, oltre a un terzo situato all’incirca a metà tra di essi.
Los Caños de Meca
Questo chilometrico spiaggione, meta dei surfisti di tutta Europa può, nelle giuste condizioni, fungere da punto di partenza per un’uscita lungo i ricchi fondali rocciosi antistanti il vicino Cabo Trafalgar, che lo delimita a sud. Per la verità, anche al largo della spiaggia non mancano ampie distese di roccia piatta, interrotte qua e là da rialzi e panettoni interessanti, ma sono per lo più impraticabili data la quasi costante presenza di surfisti, talmente numerosi, in tutte le stagioni dell’anno, da costituire un potenziale rischio per i sub. Questo soprattutto con vento da est, che configura le condizioni di pesca ideali ma vede entrare in scena i “temibili” kite surfer, che necessitano di questo tipo di vento per compiere le loro ardite evoluzioni.
Necessita allora, dopo aver parcheggiato l’auto ed effettuato la vestizione in uno dei due parcheggi a pagamento prossimi all’ingresso in spiaggia, percorrere a piedi 300, 400 metri verso destra, portandosi così a ridosso di Cabo Trafalgar, da cui i surfisti si mantengono sempre a debita distanza per la presenza di scogli affioranti, ben visibili solo in condizioni di bassa marea, che rappresenterebbero per loro un grosso rischio.
Il vento da sst, dicevo… E’ quello dominante ed è il migliore per immergersi in quanto schiarisce l’acqua e richiama pesce. Nonostante la provenienza da terra, non si associa mai a mare piatto, in quanto, incanalandosi lungo il vicino Stretto, genera
un’onda che risale quasi parallela la costa e impatta il promontorio da sud, restando tuttavia quasi sempre bassa e corta, tale da non impedire di scendere in mare.
Cabo Trafalgar, sormontato da un alto faro bianco, da un’antica torre di avvistamento in muratura e dai resti di un’antica fabbrica romana di “garum”, si protende nell’oceano poggiando su un piatto zoccolo emiciclico di roccia, nettamente delimitato da un gradino sotto al quale inizia la franata, che ha caratteristiche diverse nei vari tratti.
Quello più a sud appare formato da schiene di grotto piuttosto alte, caratterizzato da tane e spaccature profonde, a sviluppo prevalentemente orizzontale, con poca sabbia. Questo tipo di fondale si estende verso il largo a gradini, senza apparente soluzione di continuità, con l’aumentare progressivo della profondità di esercizio.
Poi, diverse centinaia di metri al largo, non mancano risalite sino a 8, anche 6 metri, ma a pinne, senza una barca appoggio, possono risultare difficili da individuare. Anche per una questione di prudenza, legata prevalentemente alle correnti che al largo possono diventare imprevedibili, ho sempre ritenuto opportuno rimanere a ridosso del promontorio, entro la batimetrica degli 8, 10 metri al massimo.
La parte più settentrionale del promontorio, quella sotto al faro per intenderci, vede mutare leggermente la morfologia del fondale. Aumentano i catini di sabbia, delimitati da roccioni che poggiano direttamente sulla sabbia stessa, con meno tana e senza la configurazione a gradini del tratto precedente.
Le prede cacciabili in inverno sono soprattutto spigole, non così numerose come si potrebbe pensare, ma che tuttavia ho sempre avvistato, e saraghi, sia maggiori che pizzuti e, soprattutto, faraoni. Queste due ultime specie, in particolare, sono presenti con esemplari di dimensioni importanti, che incrociano sia nel tratto iniziale con gradini di roccia e tana sia in quello più lontano con prevalenza di sabbia e roccia piatta.
Un’ulteriore specie tipica della zona è il borriquete (pesce asino), un bellissimo pesce simile a una corvina, dalla livrea rosea e buonissimo da mangiare, che tende a vivere in colonie spesso numerose ed è presente a sua volta con esemplari che possono raggiungere il paio di chili.
In questo posto ho sempre applicato una tecnica mista, che va dall’agguato in risacca, nelle zone più vicine a terra,
all’aspetto nei tratti più al largo, dove la batimetrica scende e la risacca si avverte di meno.
Qualora, appostati sul fondo, s’intravveda una qualche tettoia di roccia, conviene, dopo qualche secondo all’aspetto, agguatare cautamente verso l’imboccatura della stessa ed esplorarne l’interno, in quanto i pesci, soprattutto saraghi e borriquete, sono soliti stazionare in prossimità di queste spaccature.
Le correnti sono quasi sempre presenti, anche se non così forti come in corrispondenza dello Stretto, e in genere di maggiore intensità nei periodi di alto differenziale di marea. Può convenire scendere in acqua un paio di ore prima del culmine di marea, allorchè la corrente viaggia da sud a nord, agevolando il nostro spostamento dal punto d’ingresso in acqua verso Cabo Trafalgar.
In prossimità del culmine di marea, la corrente tenderà ad attenuarsi e, poi, a invertire lentamente la propria direzione con il cambio di marea, aiutando il rientro. Si tenga comunque presente che, grazie alla conformazione sabbiosa del litorale, in caso di difficoltà è possibile risalire a terra dalla spiaggia di Zahora, che inizia subito oltre lo sperone roccioso di Trafalgar, e rientrare comodamente a piedi passando dietro al promontorio.
Tenete anche in considerazione il fatto che, con corrente da nord verso sud, il mare tende rapidamente a intorbidire costringendo, in genere, a interrompere l’uscita.
Un’altra condizione in cui le acque si presentano torbide è con vento da ponente che, se leggero, non pregiudica di entrare in acqua, ma solleva in ogni caso, presso la riva, alti cavalloni, con risacca molto intensa. Sono le condizioni preferite dai surfisti da onda che, in queste circostanze, danno il cambio ai colleghi kite-surfer, ma per noi non vanno bene in quanto, oltre a pregiudicare la visibilità, fanno letteralmente scomparire il pesce.
Punta Camarinal
Circa 50 chilometri a sud di Los Caños de Meca, lungo
l’autovia che conduce a Tarifa e ad Algeciras, troveremo a un certo punto l’indicazione per il paesino di Bolonia, una piccola località balneare che sorge appena a sud di un esteso parco archeologico che ospita le vestigia dell’antica città di Baelo Clauda, che fu uno dei una dei principali insediamenti della Betica romana. Vi possiamo visitare, oltre a un museo tematico (ingresso gratuito per i cittadini UE), gli scavi della citta, con le mura, il foro, le terme, i templi e, a ridosso della spiaggia, le vasche e i laboratori che venivano utilizzati per la preparazione delle conserve di pesce, in particolare di quel garum, apprezzatissimo dai nostri avi, che proprio in questa regione trovava uno dei principali centri di produzione ed esportazione.
Se, lasciando alla nostra destra l’ingresso alla zona archeologica, proseguiamo verso la spiaggia, troveremo una stradina che, passando esternamente alle rovine, conduce a un piccolo parcheggio, prima di interrompersi in corrispondenza della spiaggia stessa.
Possiamo utilizzare questo piccolo spiazzo come punto di partenza per un’uscita da terra verso Punta Camarinal, uno sperone roccioso che si protende nell’oceano, appena a nord del parco archeologico, coperto, nella parte più esterna, da un’impenetrabile macchia di vegetazione e, nella parte più interna, da un’estesa duna sabbiosa, che prosegue direttamente dalla spiaggia.
Pescare da terra a punta Camarinal non è banale: richiede un discreto spirito di sacrificio, per le distanze da percorrere a piedi e, soprattutto, a pinne, ma ne verremo certamente ripagati dalla ricchezza di vita sottomarina. Ho conosciuto questo spot grazie all’amico Mario, un ragazzo che da Ravenna, città in cui lavorava come comandante di rimorchiatori, si è trasferito con la famiglia, un paio d’anni fa, in Andalusia, dove ha trovato condizioni particolarmente favorevoli di vita, di lavoro e - perché no?- di pesca.
Nell’ultima uscita estiva dell’anno scorso a Punta Camarinal, Mario e un amico avevano catturato due belle ricciole e una leccia, segno evidente di come la maggior vicinanza, rispetto a Los Caños de Meca, allo Stretto di Gibilterra e al Mediterraneo, abbia un impatto evidente sulla tipologia di specie che è possibile incrociarvi. Invogliato dai racconti dell’amico, avevo pertanto deciso di esplorare a mia volta la zona, nonostante la stagione invernale e i 16 gradi di temperatura dell’acqua configurassero condizioni sicuramente diverse.
Una volta completata la vestizione nel parcheggio bisogna, come dicevo, percorrere poco meno di un chilometro a piedi per arrivare alla base del promontorio, ove scendere finalmente in acqua. Sin da subito incontriamo lingue di rocce, lastroni e scogli affioranti che si staccano dalla parete ed emergono dal fondo sabbioso, arricchendosi, in estensione, verso il largo, mano a mano che si procede verso il vertice del promontorio.
S’incontra, sin dai primi metri, un tripudio di pesce in bassofondo, con sciami di saraghi e saraghetti, cefali, mormore e quei piccoli pagelli che, ai tempi dei Romani, rappresentavano la base principale per la produzione del garum.
A onor del vero, nonostante la ricchezza di vita, le prede importanti, in questo tratto di fondale, latitano. Ricordo di averci visto una sola bella spigola e qualche sarago grosso, prede molto smaliziate, che si dileguarono al primo accenno di pericolo.
Uno dei vantaggi di questo posto è che il versante orientale di Punta Camarinal è ridossato da nord-ovest, consentendo di potersi immergere anche in presenza di vento e mare di discreta intensità provenienti da tale direzione. Anche la corrente, scendendo un paio di ore prima del culmine di alta marea, non risulta apprezzabile.
Bisogna percorrere 1.100 metri a pinne prima di scapolare una puntarella che introduce al vertice del promontorio. Da questo punto in poi il fondale diviene più ricco, elaborato ed esteso verso il largo, ma mancano ulteriori 600 metri prima di raggiungere Punta Camarinal, che costituisce il vertice geografico della formazione rocciosa.
Dalla puntarella a Punta Camarinal le condizioni di pesca mutano alquanto, non solo per l’incremento di complessità del fondale, ma anche perché, venendo a decadere il ridosso, è facile che il moto ondoso e la risacca diventino molto più intense, per cui bisognerà anche fare attenzione a non avvicinarsi troppo a riva, per non rischiare di essere proiettati contro qualche scoglio.
Sempre notevole il movimento di cefali, piccoli saraghi e mangianze. Tuttavia, aumenta di tanto la possibilità d’incrociare pesci di taglia. Quando vi andai, in appena mezz’ora, avvistai un grosso barracuda transitare in caccia fuori tiro, due belle spigole che mi vennero incontro decise, salvo poi deviare e fuggire poco prima di giungere a tiro, un’orata e diversi saraghi in risacca. Anche branchi nutriti di triglie, con esemplari di taglia impensabile in Mediterraneo.
Le condizioni di visibilità erano decisamente migliori di quelle che ho sempre trovato nei dintorni di Cabo Trafalgar! Non mi trattenni molto sul vertice in quanto, inesperto della zona, non volli esagerare e valutai opportuno anticipare il rientro per non trovarmi a corto di energie a fronte delle lunga distanza a ritroso da ripercorrere a pinne.
Con il senno di poi, valuterei opportuno, in occasione di una prossima “spedizione”, non dissipare tempo ed energie a effettuate troppe sommozzate nel tratto iniziale del percorso e dirigermi subito verso il vertice del promontorio, ove poi giocarmi le carte migliori.
Punta Carnero
Ho scoperto questa località causalmente, un paio di anni fa, durante una puntata esplorativa in direzione di Gibilterra. Non ebbi la possibilità d’immergermi, però vidi uscire dall’acqua due sub con appese alla boa una cernia e un’urta (il pagro reale), due prede tipiche la prima del Mediterraneo, la seconda dell’Atlantico, a riprova di quella splendida commistione di caratteristiche e prede dei due mari che lo stretto di Gibilterra può offrire.
Nel dicembre scorso, finalmente, sono riuscito a pescarci. Da Caños de Meca sono circa un’ottantina i chilometri da percorrere. Si oltrepassa Tarifa e, poco prima di raggiungere il centro di Algeciras, si devia a destra verso Getafe, seguendo poi le indicazioni per il faro di Punta Carnero. Si parcheggia a lato della stradina che conduce al faro e, prima di effettuare la vestizione, conviene fermarsi alcuni minuti a godersi lo spettacolo in quanto è sicuramente uno dei posti più incredibili dove sia mai stato a pescare.
Alla nostra sinistra si apre la grande baia di Algeciras, di cui Punta Carnero rappresenta il limite meridionale, con la rocca di Gibilterra che si protende in mare dal versante opposto, mentre a destra lo sguardo spazia sullo Stretto, percorso da una fila continua di grossi mercantili e, oltre, sull’Africa, con i primi contrafforti montuosi dell’Atlante e l’enclave spagnola di Ceuta.
Sotto di noi, una lungo pennello, quasi rettilineo, di roccia naturale, che si estende per circa 300 metri verso il largo, con qualche irregolare interruzione in superficie, ma che, sotto il pelo dell’acqua, costituisce un unico blocco granitico, detto isola Cabrita.
Una volta indossata la muta, si scende a piedi lungo un sentierino abbastanza ripido, che piega a destra in direzione del faro e conduce, proprio sotto di esso, a una spiaggetta sassosa da dove entrare in acqua.
Incontreremo un bassofondo roccioso di massi e massoni, ricco di vita sin dai primi metri. L’acqua è limpidissima e ciò non favorisce l’agguato ai saraghi presenti in gran numero, peraltro discretamente smaliziati e diffidenti. Volendo rimanere in bassofondo, ci si può dirigere verso destra e proseguire all’agguato tra scogli (anche affioranti) in non più di 3 o 4 metri d’acqua. Le sorprese sono possibili da subito. Quando ci andai, già in pochi metri d’acqua mi passò davanti un bonito di un paio di chili, che centrai, ma che si strappò durante il recupero.
C’era una corrente molto forte diretta verso l’Atlantico che mi costrinse, per diverso tempo, a rimanere vicino a terra, sfruttando i “coni d’ ombra” prodotti dai grossi scogli affioranti.
Poi, in prossimità del culmine di alta marea, la corrente si attenuò decisamente e mi fu possibile estendere l’esplorazione verso il largo. Il fondale roccioso proseguiva senza soluzione di continuità, con schiene e panettoni massicci che delimitavano fosse e canaloni, ricoperti da una bassa vegetazione di alghe, verdi e rosse. Abbondantissimo il pesce, con branchi sterminati di cefali, boghe, salpe, saraghi fasciati e maggiori. Avvistai sin da subito anche alcuni fasciati enormi, uno dei quali riuscii a catturare e un grosso scorfano in tana a cui non sparai per non distruggere l’asta del potente doppio elastico che impugnavo.
Provai a scendere dopo aver scaricato un elastico, ma non lo ritrovai. Dopo, fu la volta di una grossa urta. La sua iniziale curiosità lasciò però ben presto posto alla precauzione e al timore, che la convinsero a non avvicinarsi più di tanto, consentendomi solo di ammirarne la splendida livrea marezzata.
Una volta giunto al largo fui sorpreso da un nuovo flusso di corrente, in direzione opposta alla precedente, che mi trascinò rapidamente a ridosso dell’isola Cabrita, rendendomi possibile l’effettuazione di solo pochi tuffi.
In uno di questi, assistetti all’incursione di alcuni tonni allitterati di buona taglia (6, 8 chili), che si mantennero a loro volta a distanza. In prossimità del vertice dell’isola, la corrente mi spinse a sinistra della stessa attraverso una delle aperture della sua parte emersa. Da questo lato la corrente risultava di minore intensità, tale da consentirmi una serie di discese più tranquille.
Giravano anche qui gli allitterati, di cui potevo osservare le evoluzioni direttamente dalla superficie e, nel corso di un aspetto condotto sulla sommità di un tozzo pinnacolo roccioso, un paio di loro mi giunse quasi a tiro. Poco dopo, avendo notato come la corrente, diretta verso il Mediterraneo, avesse ripreso ad aumentare, contestualmente alla marea ormai calante, valutai prudente rientrare verso il punto di risalita, che guadagnai senza problemi. Avevo catturato un unico pizzuto (benchè enorme), ma avevo ancora negli occhi lo spettacolo di quei fondali spazzati dalla corrente e brulicanti di vita.
Ci devo assolutamente ritornare…