Una vasta risalita in mezzo al mare, i primi tuffi che è ancora quasi buoi e poi, al ritorno, l’ennesima discesa, quella giusta. L’enorme dentice arriva di muso e il tiro non avrà storia. Farà registrare nove chili di peso
Yuri Cinà
Un’estate bellissima quella del 2023. Diverse catture di riguardo, bei momenti in compagnia di compagni vecchi e nuovi sul gommone. Ho molto poco tempo da un paio d’anni a questa parte, complice soprattutto il lavoro. Abito a 250 chilometri dal mare e devo ottimizzare sempre tutto e solitamente, nella mia meticolosa e quasi “autistica” organizzazione, la cosa mi riesce abbastanza bene. In tutto ciò le condizioni venatorie devono essere favorevoli e come noi esperti del settore sappiamo, spesso per arrivare a una cattura di un certo tipo si devono unire, oltre a una spropositata dose di “buco”, la luna, la marea, l’orario, il vento, la corrente, la temperatura fuori, la temperatura dentro, la temperatura a una certa quota e almeno altri 2 o 3 fattori, tutti importanti alla stessa maniera. Quindi, con giornate “obbligate” diventa ancor più difficile “obbligare” un pesce a passare proprio da lì, in quel momento, in quel punto specifico del Mediterraneo.
Ma finalmente, le ferie. Tutta la famiglia al seguito, inclusa la bomba epidemiologica che è mio figlio, e ovviamente una disgrazia intestinale dopo l’altra si accanisce a cascata su tutti i membri della famiglia e rende l’inizio delle vacanze piuttosto limitato da tutti i punti di vista, figuriamoci per l’apnea. In mare, intanto, una delle bonacce più lunghe mai viste imperversa, così come imperversano le maledizioni ai nostri virus.
Poi, per fortuna, comincio a star bene e riprendo le mie uscite che, vista la famiglia al seguito, solitamente si limitano alle prime 3/4 ore di luce, per poi dedicarmi alla vita da padre/coniuge per il resto della giornata. In ferie difficilmente esco per far carniere a tutti i costi, piuttosto dedico l’uscita al “pesce di un certo tipo”. O il pezzo di qualità e stazza, o niente.
Così, anche se non si dovrebbe dire perché non è propriamente il massimo della sicurezza, sfrutto questa incredibile bonaccia senza il minimo scarroccio e abbandono il gommone sulla verticale dei vari spot, rilassandomi e preparando il tuffo attaccato al tubolare, alla ricerca di grossi dentici e ricciole. Trovo più o meno tutti i giorni, per tre albe consecutive, grossi dentici apatici in branchi numerosi. Apatici un po’ come la bonaccia, insomma. Non ho mai l’occasione buona, nemmeno ai primissimi minuti della giornata, quando ogni sogno è possibile.
Dopo la terza alba rude e cruda, rientro in porto e dedico qualche minuto a un amico locale con il quale scambio un paio di confidenza di pesca. Mi consiglia, per l’indomani mattina, un posto che non vado a vedere da qualche anno e che tra l’altro non conosco nemmeno troppo bene. Solitamente, quando un pescatore mi consiglia di puntare a destra, vado a sinistra. È una regola non scritta, ma utile.
Invece, l’indomani mattina faccio proprio come dice lui, ci vado e anche piuttosto convinto. La bonaccia sempre presente facilita ogni cosa nelle uscite da gommone in solitaria. Non si ancora, non si pedagna, ti rilassi sempre. È stupendo, non fosse per la paralisi che spesso trasmette ai predatori.
Arrivo quasi sulla secca che è praticamente buio, spengo il motore, indosso la muta in quella tipica atmosfera estiva umida e calda, l’odore del Mediterraneo e della macchia che, con la brezza mattutina, arriva da terra. Scandaglio un po’ e non vedo nulla di nulla, penso già di aver buttato la mattina: “era meglio di là”, penso. Quando sei di qua è sempre meglio di là, un po’ come l’erba del vicino. Non trovando nulla di particolare, accendo il secondo scandaglio, ovvero quello dell’istinto che mi donò mio padre, che affinò mio nonno e che sono riuscito a ottimizzare io, in anni di mare.
Scelgo dunque la risalita più congeniale in questa vasta secca composta da graniti in successione, con cappelli tra i 24 e i 29 metri, intervallati da canaloni profondi 40, 45 metri. Mi ventilo bene a bordo, spengo il motore e sul proseguo dello scarroccio arrivo sulla verticale dello spot; entro in acqua.
La luce è appena necessaria a vedere le pinne, è un tuffo praticamente al buio in tutti i sensi, anche perché non conosco bene il posto. Giù, parto. Approfitto della prima discesa per cercare la giusta concentrazione e comincio a monitorare i sensori del mio corpo per capire se va tutto bene, se sono al cento per cento. Mi appoggio appena e le sagome sono inconfondibili. Grossi dentici davanti mi controllano e sembra vogliano caricare. Perdo l’attimo perché, penso, se li ho visti così bene al buio, probabilmente significa fossero a tiro.
Risalgo un po’ affranto perché capisco di aver sbagliato e mi chiedo se avrò una seconda possibilità in quella settimana così particolare di bonaccia. Recupero a galla quanto serve, mi affaccio sul tubolare per guardare lo scandaglio e capire quanto mi sia spostato: non mi sono praticamente mosso dallo spot. Questa situazione mi dà una calma pazzesca, quindi riparto verso il fondo. Nulla. Biologicamente morto. Natura morta. C’è da andare in sconforto in questi casi.
Riaccendo il motore e gironzolo per la secca esplorandola in lungo e in largo. Nulla. Ricomincio a maledire di aver dato retta a un pescatore e mi allontano di diverse miglia, ma proseguendo in un ennesimo cappotto brutale.
Sono le 8.30 quando decido di tornare verso la famiglia, per farlo devo però ripercorrere a ritroso il tratto di mare del primo spot, quello dei mostri al buio. Ci passo sopra dopo venti minuti di navigazione, lo supero a 30 nodi, ma si accende la spia dell’istinto. Riprovaci Yuri, riprovaci. Un tuffo e ce ne andiamo a casa.
Dopo alcuni minuti sono lì e ripercorro esattamente la rotta sullo scandaglio, spengo il motore nello stesso punto e mi butto sullo scarroccio, tutto in fotocopia al primo tuffo della giornata. Sono in planata e mi assale già lo sconforto perché non vedo nemmeno la mangianza. Atterro su una lastra un po’ più fonda e punto il fucile nel verso del branco immaginario, quello che probabilmente avevo sognato al buio due ore e mezza prima. Sono lì da qualche secondo a fissare il nulla quando, ruotando lo sguardo a sinistra, vedo un enorme pesce precipitare verso di me, dritto come un fuso. Vedo solo il capoccione, non muove nemmeno la coda.
Ruoto il 115 verso di lui, rotazione complessa perché ben superiore ai novanta gradi. Continua a puntarmi senza nemmeno un accenno di pericolo. Sparo di muso e senza alcuna storia lo metto in sagola e risalgo. Il denticione sfuria lasciando dietro di sè la tipica scia di bolle di quando partono come i razzi. Il recupero a galla lo trascorro ipotizzando il peso perché so di aver preso un bestione straordinario, più straordinario di dentici straordinari pescati negli ultimi tempi.
Ce l’ho in mano, è impressionante, non so ancora dargli un peso. Sono ben più significative le sensazioni che mi pervadono e sapere di aver avuto la meglio su un predatore più unico che raro, il vero re di quella secca riscoperta quell’alba, abbandonata e ritrovata nel giro di due ore.
Dopo poco mi ritrovo al porto e lo faccio vedere al mio amico pescatore, in parte artefice di questa avventura. Da questo momento, quando qualcuno mi dirà di andare di là, beh, a volte lo farò! La mattina termina con il dovuto festeggiamento assieme a mio figlio che, già a 3 anni, adora vedere questi mostri che a volte papà recupera dagli abissi. Per onor di cronaca (e di articolo), alla bilancia il pesce supererà i nove chili di peso.