Un ambiente molto particolare: acque fredde e torbide e poche specie insidiabili tra la folta foresta di laminaria. Tuttavia, proprio per questo profondamente affascinante per chi ama i posti solitari e le suggestioni nordiche, dove ogni uscita può riservare sorprese e avventure sempre nuove
di Alberto Martignani
Non si può certo dire che la Scozia sia un ambiente adatto alla pesca subacquea, o non si spiegherebbe come, nell’ex-regno di Maria Stuarda, i praticanti si contino davvero sulla punta delle dita, a differenza di Paesi non meno settentrionali, come Inghilterra, Irlanda, Norvegia, dove sta invece progressivamente prendendo piede. Dato però che queste coste m’incuriosiscono da anni, avendo deciso di regalarmi una vacanza da queste parti, ho voluto portarmi dietro l’attrezzatura e tentare la sorte.
Il piano prevedeva di trascorrere un paio di giorni a Edimburgo, spostarsi quindi 170 chilometri a sud per una visita alle antiche strutture del Vallo di Adriano e ai musei della zona, per deviare infine a nord-est e raggiungere la costa dello Scottish Borders, presso Eyemouth.
Si tratta di una ventina di chilometri di costa alta e scoscesa, difficilmente approcciabile da terra, inseriti in un litorale per il resto piatto e sabbioso, di foci fluviali e isole tidali, continuamente ridisegnato dalle altissime maree caratteristiche di queste latitudini. Siccome proprio ad Eyemouth, studiando la mappa satellitare, avevo individuato la possibilità di raggiungere da terra alcuni punti potenzialmente favorevoli, avevo scelto questa località come base logistica per un breve soggiorno.
Arrivato nel primo pomeriggio di una tiepida giornata di metà luglio, avevo immediatamente localizzato il posto migliore ove scendere e, indossato il completo da 7 millimetri, mi ero buttato poco dopo il culmine di marea, con il livello dell’acqua ancora molto alto, a sommergere una puntarella e alcuni panettoni di roccia coperti da una foltissima laminaria bruna.
La corrente era leggera e, forse per caso, proprio la puntarella adiacente la zona punto d’uscita era “tappezzata” da fitti branchi dei pescetti che qui chiamano “sand-eels”. Avevo subito adocchiato la presenza di un gruppo di piccoli pollacks (della famiglia dei merluzzi) che, alternandosi tra loro, portavano attacchi alla mangianza dal basso verso l’alto. Pesci piccoli ma, a uno dei primi aspetti condotti al limite tra roccia e laminaria, ne era comparso uno di dimensioni apprezzabili e, nonostante si fosse accorto della minaccia e avesse subito intrapreso un prudente dietro-front, ero riuscito a bloccarlo con un tiro preciso e fortunato dal dietro in avanti. Proseguendo l’itinerario verso destra, in direzione di altre punte e baie, non avevo più incontrato né mangianze né predatori. Anche scendendo sul fondo, a 12, 14 metri, dove la laminaria lasciava il posto a una distesa mista di roccia piatta, sabbia e ciottoli, alla ricerca magari di qualche succulento pesce piatto, non avevo visto nulla; solo grossi granchi biancastri e piccoli astici, che avevo risparmiato… Tuttavia, rientrato verso il punto di partenza, avevo effettuato un aspetto più o meno nello stesso punto ove avevo catturato il primo pesce, e un altro, quasi della stessa taglia, si era materializzato a distanza utile.
Un’insostenibile corrente
La speranza, generata da questa prima uscita, di pescare agevolmente, veniva il giorno dopo rapidamente frustrata, assiema a quella di poter estendere le esplorazioni subacquee anche ad altri punti della costa. In primo luogo, la ricognizione, effettuata in auto, delle varie località costiere, dalla più settentrionale St. Abbs sino alla meridionale Burnmouth, aveva evidenziato l’assenza assoluta di comodi accessi da terra in punti interessanti. Inoltre, ridisceso nel pomeriggio nello stesso spot del giorno prima (a questo punto l’unico praticabile), una baietta subito a destra della zona portuale di Eyemouth, ero stato da subito investito da un fiume di corrente. Ciò mi aveva lasciato chiaramente intendere di non potermi allontanare molto dal punto d’ingresso, pena il rischio di essere trascinato verso sud, in una zona di falesie da cui mai e poi mai sarei riuscito a uscire. Agivano probabilmente la differente condizione di marea (in fase crescente e prossima al culmine) e il differenziale in progressivo incremento (da queste parti le escursioni variano da 4 a 6 metri circa).
Avevo tentato qualche scivolata sulla laminaria ove condurre un aspetto, per poi rientrare arrancando all’interno di un incavo della costa rocciosa, ridossato rispetto alla corrente, ove ventilarmi. Un esercizio faticoso che avevo protratto inutilmente per oltre un’ora, senza risultato alcuno.
La mattina successiva, in assenza d’alternative, vi ero tornato, però in una fase di marea più precoce, prevedendo di trovare una corrente meno intensa. In effetti il flusso, pur presente, risultava leggermente meno forte, consentendomi di estendere il raggio d’azione ad alcune risalite di roccia, coperte da laminaria, a un centinaio di metri dalla riva.
La temperatura dell’acqua non superava i 13 gradi, anche perché il versante orientale della costa scozzese, bagnata dal Mare del Nord, risente molto di mano, rispetto a quello occidentale, dell’effetto mitigatore della Corrente del Golfo. Tuttavia, considerando lo spessore generoso della muta e il continuo movimento che la particolare situazione di pesca richiedeva, non correvo il rischio di soffrire il freddo…
Avevo potuto sfruttare, per mantenere il punto e favorire la ventilazione, alcune funi che si staccavano da corpi morti depositati, credo, dai locali pescatori di crostacei con le nasse. Pur assistendo ad alcuni nutriti e scenografici passaggi di pollacks, nessun pesce di taglia si era mostrato e l’esito dell’uscita era risultato, tristemente, lo stesso del giorno prima.
Una presenza ingombrante
Ed eccomi al pomeriggio del giorno successivo, ove decidevo di provare a smuovere la situazione di stallo venutasi a creare cambiando strategia. Davanti alla baia di Eyemouth emerge un piccolo arcipelago di isolotti, chiamati Hurkur Rocks, dei quali, al culmine di alta marea, si individuano solo un paio di scogli apicali mentre, in fase di bassa, si indovina come siano circondati da un’estesa e articolata risalita. Scendendo in acqua da una scogliera alcune decine di metri a sinistra dal punto d’ingresso sinora utilizzato, mi sarei trovato in posizione buona per raggiungerli, corrente permettendo. Al termine della pescata, avrei anche potuto sfruttare la medesima, eventuale corrente per un rientro agevolato verso un pontiletto in cemento, tutto a destra, già utilizzato con successo per risalire dalle pescate precedenti.
La strategia aveva avuto successo e, in una decina di minuti, avevo coperto i circa 250 metri necessari a raggiungere gli isolotti, complice la corrente che, in fase di marea decrescente, risultava decisamente meno intensa. Però, poco prima di raggiungere la meta, la vista di una grossa testa triangolare che mi osservava a pelo d’ acqua mi aveva messo sul chi vive. Al primo tuffo avevo catturato un pollack di dimensioni non eccezionali. Prudentemente avevo evitato di appenderlo alla schiena ma l’avevo attaccato al filo del pallone: non erano passati 10 secondi che un violento scrollone alla sagola mi aveva confermato di non essere il solo, in acqua, nei paraggi. Una foca di duecento chili almeno aveva addentato il povero pesce e con violenti strattoni cercava di strapparlo dal filo. Sfilata la telecamera dal fucile, avevo ripreso lungamente la scena, anche perché la foca, nonostante i reiterati tentativi, non riusciva a impossessarsene.
Mosso a pietà, dal momento che il merluzzo era ormai ridotto in uno stato pietoso, lo avevo sfilato dal nylon e lo avevo lasciato planare verso il fondo. La foca lo aveva subito puntato e, quasi con delicatezza, lo aveva addentato e portato via, immagino per sgranocchiarselo con calma. Inutile dire che non avrei più potuto pescare. L’animale, divorata la preda e avuta la conferma di essere di fronte a un suo quasi simile, per lo più ragionevolmente ben disposto nei suoi confronti, non mi mollava più. Me lo sarei ritrovato davanti a ogni aspetto tentato e, mentre mi ventilavo in superficie, mi arrivava regolarmente sotto alle pinne, dalle quali si faceva poi accarezzare, mordicchiandole, come un gattone affettuoso.
Mi ero dovuto rassegnare a una mezz’ora di coccole , dopodiché ero risalito, con il grosso pinnipede che aveva continuato a seguirmi sino a una decina di metri dal punto d’uscita.
I segreti delle Hurkur Rocks
A questo punto mi ero rassegnato al fatto che la pesca, per un motivo o per l’altro, non fosse cosa da queste parti, ma avevo deciso di godermi in ogni caso la vacanza. Infatti, la zona è paesaggisticamente bellissima e ricca di storia. Avevo dedicato buona parte della giornata al trekking sulle vertiginose falesie a picco sull’oceano attorno alla stessa Eyemouth, o della vicina St. Abbs Head, oppure alla visita a località storiche come Berwick upon Tweed, antica fortezza elisabettiana, o di Lindisfarne, isola tidale ospitante un castello e un’abbazia altomedievali, che ancora conservano gli sfregi delle coeve incursioni vichinghe.
Tuttavia, nel tardo pomeriggio avevo continuato a riservarmi un paio d’ore d’acqua, sempre al gruppo d’isolotti delle Hurkur Rocks, dal momento che, foca o non foca, mi erano parsi la zona più interessante. Si era ormai al penultimo giorno di vacanza e, raggiunto il piccolo arcipelago con qualche patema a causa della costante corrente, mi ero guardato lungamente attorno, alla ricerca dell’ormai ben nota testona baffuta. Non avendo scorto alcunché, avevo iniziato speranzoso a fare su e giù. Avevo notato come la corrente si intensificasse in corrispondenza degli isolotti, i quali scindevano il flusso in due rivoli talmente veloci da non poter essere affrontati, e tali da non consentire di raggiungere le punte più esterne e settentrionali. Vi si poteva riuscire solo spostandosi alcune decine di metri al largo, rientrare verso gli scogli e, una volta catturati dal fiume di corrente, lasciarsi andare ed effettuare quelle due, massimo tre planate sul fondo, concluse da un aspetto, che si riusciva a compiere prima di uscire dalla zona utile e dover poi faticosamente risalire. L’alternativa era trovare riparo dietro le due schiene di roccia maggiori, dove si era ridossati rispetto alla corrente e c’era la possibilità di riposarsi e ventilarsi prima di ricominciare la giostra.
L’acqua appariva livida e scura, densissima di organismi planctonici, ctenofori e meduse, tra cui le enormi meduse a criniera di leone, dal corpo sino a un metro di diametro e i lunghi filamenti, urticanti sì ma non più di quelle mediterranee.
Oltre agli onnipresenti merluzzetti, avevo cominciato a vedere anche i grossi e sgraziati tordi atlantici chiamati, in inglese, wrasse, alcuni talmente corpulenti da sembrare cernie. Poi, nel corso di un aspetto condotto in corrispondenza del vertice meridionale dello scoglio più grande, mentre sorvegliavo un branco di piccoli pollack, mi ero reso conto della presenza di un grosso esemplare solitario arrivato da dietro.
Avevo brandeggiato lentamente di quasi 180 gradi e, sfruttando la reattività non sempre fulminea di questi pesci, ero riuscito a trafiggerlo. Neanche il tempo di sfilarlo dalla sagola che la foca era lì, a mendicare l’obolo. Questa volta, però, avevo deciso di cedere alle lusinghe, sia perché si trattava di un bel pesce, e ci tenevo a riportalo a riva, sia perché è noto come abituare un essere selvatico a prendere cibo dalle mani dell’uomo non sia mai una buona soluzione, per la sicurezza di entrambi.
Mi ero quindi appeso il merluzzo non dietro alla schiena ma davanti all’addome, per averne un migliore controllo e avevo provato a continuare a pescare, nonostante il disturbo arrecato dall’ingombrante mammifero che, come già nella circostanza precedente, aveva continuato a seguirmi. Ero così riuscito a farmi un’idea ancora più precisa dello sviluppo subacqueo del piccolo arcipelago, del gioco delle correnti e dei punti più interessanti. Ma ovviamente non avevo potuto effettuare altre catture e, a un certo punto, mi ero abbandonato alla corrente che, in pochi minuti, mi aveva riportato al punto d’uscita.
Per l’ultima pescata della vacanza ero tornato ai medesimi isolotti, senza particolari velleità di cattura in quanto ero quasi sicuro che la foca mi avrebbe marcato stretto anche oggi. Invece, l’intelligente animale doveva aver compreso come non fosse nei suoi interessi starmi alle costole per tutto il tempo. Per cui, dopo essermi passata davanti al primo tuffo, guardandomi, come per farmi comunque intendere che c’era, non si era più fatta vedere per un po’, consentendomi quasi un’ora di mare in tranquillità. Era pomeriggio inoltrato, quasi al culmine dell’alta marea, e la corrente attorno agli scogli affioranti viaggiava veloce.
Dopo una prima bella cattura, anche in questo caso alla base dell’isolotto più grosso e meridionale, e una successiva, sempre di un pollack, ma più piccolo, avevo deciso di spostarmi sugli isolotti più settentrionali, in questa fase di marea sommersi o appena affioranti. Per farlo, però, avevo dovuto pedagnare la boa e allargarmi leggermente per non essere esposto in pieno al fiume di corrente.
Pinneggiando con vigore avevo raggiunto la meta prefissata e, a questo punto, mi ero rituffato nel flusso di corrente planando sul fondo. Ero subito stato circondato da un enorme branco di pollacks e, anche in questo caso, dopo un po’ di tempo ne era comparso, circospetto, uno di taglia interessante, che avevo prontamente catturato. Per poterlo sfilare dall’asta e riporlo nel cavetto senza farmi trascinare via, avevo dovuto mettermi con la schiena verso una roccia, schiacciato contro questa dalla corrente. Riassemblato il fucile, avevo iniziato ad aggirare la roccia medesima, per preparare un nuovo tuffo. Mentre però scapolavo il sassone, un grosso pollack mi era apparso a mezz’acqua, quasi fermo in corrente. Istintivamente, con il boccaglio ancora fuori, avevo premuto il grilletto e, con un po’ di fortuna, ero riuscito a centrarlo dalla superficie. A questo punto avevo ben 4 esemplari in cavetto, per cui l’amica foca aveva deciso che poteva essere il momento giusto per farsi rivedere. Pur con dispiacere, avrei però per la seconda volta deluso le sue aspettative, e lei mi avrebbe scortato sino all’uscita, come per un simbolico saluto e un eventuale arrivederci…
Partiamo dal presupposto che “non si va in Scozia solo per pescare”. Tuttavia, come in ogni Paese ove vi siano mare, pesci e assenze di divieti e rischi, riuscire a effettuare qualche uscita può risultare un piacevole corollario alla vacanza. Come accennato, ho scelto di trascorrere in primi due giorni nella capitale Edinburgo. Una visita approfondita richiederebbe ovviamente più tempo, ma un paio di giorni trascorsi girando a piedi l’esteso centro storico (Old Town e New Town) che si dipana ai piedi del castello, consente comunque di godere dell’atmosfera vintage e rilassata della città e visitarne le attrazioni principali.
Successivamente, un viaggio verso sud di 170 chilometri, con l’auto a nolo, mi ha consentito di raggiungere la regione inglese del Northumberland, trascorrendo un paio di giorni nel paesino di Bardon Mills, punto di partenza ideale per le escursioni a piedi lungo il tratto meglio conservato del Vallo di Adriano (assai suggestivo e paesaggisticamente stupendo) e la visita ai musei più importanti (Roman Army Museum e Vindolanda Fort & Museum). Per raggiungere, infine, Eyemouth bisogna percorrere ulteriori 140 chilometri verso nord-est, ritornando, seppur di poche miglia, in territorio scozzese (Scottish Borders).
Cinque o sei giorni sono più che sufficienti sia per esaurire il discorso pesca che per visitare bene la zona. Eyemouth, dominata dai resti sopraelevati di un antico forte, conserva ancora oggi l’impronta originaria di porto peschereccio, ma presenta anche un importante passato storico come centro di scambi commerciali (e di attività contrabbandiera…) tra Scozia e Inghilterra.
Imperdibili le escursioni alla St. Abbs Head (2 o 3 ore di trekking ai margini di una vertiginosa falesia), a Berwich upon Tweed, cittadina completamente circondata da una possente e complessa cinta fortificata di origine Cinquecentesca, Lindisfarne, isola tidale, connessa alla terraferma da una strada praticabile, però, solo nella fase di bassa marea. Ospita una colonia numerosissima di foche grigie, oltre ai resti di un castello e di un’antica abbazia alto-medioevali.