Un’amicizia, quella con Marco Speziga, nata come tante tra i social, ma maturata grazie alla mentalità e alla medesima visione della pesca e dei suoi abitanti
Jack Cubeddu
I social, un mondo ampio e variegato, con i suoi pro e i suoi contro, dove è purtroppo facile imbattersi in invidia, astio e gelosie legate al nostro amato sport. Ma per fortuna non c’è solo quello. Ci sono anche piacevoli condivisioni, costruttivi scambi di opinioni e nuove amicizie.
Ed è proprio attraverso i social che è nata la mia amicizia con Marco Speziga, un ragazzone di Castelsardo che alterna la sua passione per il mare al lavoro in cucina nel suo ristorante. Un lavoro che ruba diverse ore, alle passioni e al sonno, ma che Marco ha saputo giostrare a suo vantaggio per definire una tipologia di pesca che, agevolato da spot e orari, gli ha permesso negli anni di realizzare fantastiche catture nei fondali davanti casa.
Dal calcetto alla pesca
Siamo in una tiepida giornata autunnale, quando nell’ennesima uscita di pesca insieme chiedo quasi scherzando, «ti và se scrivo su di te nei prossimi mesi?». La sua risposta, semplice e scontata: «Per raccontare quanto sono scarso?», accompagnata dalla sua solita risata.
In realtà Marco sa il fatto suo. Quando nasci in una cornice come quella di Castelsardo, il mare sei abituato a frequentarlo e a viverlo; ti scorre dentro. Nonostante un primo approccio non diretto alla pesca subacquea, crescendo dietro un padre forte trainista, Marco alterna la forte passione per il calcetto tra amici a quella nuova e timida per le scorribande sottomarine, fatta di pesci semplici e di tanti polpi. Un approccio da autodidatta, ma sempre con un occhio di riguardo per la sicurezza.
Passano gli anni e il lavoro in cucina, iniziato da giovanissimo, detta ormai i ritmi giornalieri. Così, nel giro di poco tempo si trova a essere chef del suo ristorante e a dover “ritagliare” tempo per una passione che ormai è diventata una vera e propria ossessione.
La soluzione che permette di incastrare lavoro, famiglia e subacquea c’è e si chiama alba. La classica levataccia, che diventa per Marco quel momento ideale per dedicarsi alla sua passione, facendo dimenticare la stanchezza e le poche ore di sonno della tarda chiusura del ristorante.
Un approccio diverso e rispettoso
Con una premessa come questa, ci si aspetterebbe un ragazzo dal grilletto facile, una di quelle persone che in acqua, visto il poco tempo a disposizione, spara a tutto ciò che reputa in taglia. Ma non è così. Infatti, matura sin da subito una pesca finalizzata alla ricerca del predone, della cattura importante, accettando con spirito le giornate no.
Dalla sua c’è la varietà offerta dal fondale di Castelsardo, che presenta nel suo litorale diverse zone con risalite e schiene di roccia battute da tutti i fronti e che pullulano di vita. Ideali per chi, come lui, è amante delle tecniche al libero.
Nelle sue albe Marco inizia a studiare secca per secca, risalita su risalita, analizzando il comportamento dei diversi abitanti, come si muovono in funzione della corrente e quali sono le condizioni migliori per un loro possibile incontro. Nelle diverse uscite con lui ho avuto modo di notare come il suo approccio nasca in funzione delle condizioni presenti. Una volta immerso, presta ad esempio tanta attenzione alla direzione della corrente. Se nel mio modus operandi può rappresentare la scelta di un appostamento sul fondo rispetto a un altro, una direzione da intraprendere lungo costa o un alleato per ridurre la propagazione dei miei rumori, Marco valuta la direzione del flusso per capire sin da subito in che parte della secca o della risalita la mangianza andrà ad addossarsi e conseguentemente il giro di predatori.
Questa sua anticipata valutazione permette sin da subito (o quasi) di capire se quella secca è frequentata quel determinato giorno o se è il caso di salire in gommone per spostarsi su un'altra.
Anche la valutazione della posizione e dell’altezza della mangianza gioca un ruolo fondamentale. Nelle giornate in cui è distribuita in modo omogeneo lungo la colonna d’acqua, i predatori saranno scarsi o particolarmente apatici. Ma basta uno schiacciamento verso la superficie (o verso il fondo) per capire se i dentici sono in caccia o se c’è il giro di qualche grosso pelagico nei dintorni.
E sono proprio questi ultimi a essere nel mirino ideale di Marco. A farne le spese sono il più delle volte le leccie, frequenti sulle secche “castellanesi” nel periodo primaverile, ma anche ricciole e, in estate, i grossi tonni.
In tutto questo “harem pinnuto” non abbiamo citato, seppur presenti, le cernie. Il motivo è semplice: spesso non raggiungono i tre chili, pezzatura che Marco ritiene la minima per qualsiasi preda.
Altra specie a cui viene riservata particolare attenzione sono i dentici, preda che all’alba risulta meno smaliziata e più attiva sui capelli delle secche. Qui Marco attua una valutazione del comportamento sin dai primi tuffi e in base al loro posizionamento alle prime luci intuisce dove si sposterà il branco con il passare delle ore. Ciò gli permette di identificare, con il trascorrere dei minuti e il susseguirsi dei tuffi, se quel giorno nel branco son presenti esemplari importanti o se la taglia è mediocre.
Oltre al pesce bianco, quasi onnipresente sulle risalite e nelle conseguenti franate e cadute, non è raro imbattersi in pesci particolari, come i grossi capponi e i San pietro, che in particolari fasi dell’anno risalgono a quote “umane” per cacciare e riprodursi.
Allora Marco, tra le mille albe e le mille avventure tra le secche di Castelsardo, c’è qualche cattura che ti è rimasta impressa?
«Sì, certo. In assoluto il primo tonno e la grande ricciola. Per quanto riguarda il tonno, sicuramente per le dinamiche in cui è arrivato a tiro. Una giornata in cui la mangianza era abbastanza strana. Scoppiava in maniera frenetica e si apriva in direzioni diverse: però non arrivava nulla. A un tratto, durante un aspetto, si è palesato lui, maestoso, proprio davanti alla punta del mio cento ad aria. Un tiro ravvicinato e la sua furiosa partenza che sbobina tutto il mulinello. La scelta immediata di recuperare alcuni metri arrotolando la sagola attorno al fusto del fucile per poterlo poi impugnare come fosse una maniglia di sci nautico. Dopo interminabili minuti in cui sono stato portato in giro da sua maestà, finalmente il bestione cede filo, permettendo a mio cugino di doppiarlo e di godere insieme della fantastica cattura.
«Diversa invece la storia della grande ricciola - racconta sempre Marco -. Per anni la mia bestia nera, vista in tante uscite, in tante albe, sempre in lontananza e senza mai avere una reale chance. Quel giorno, alle prime luci del sole sono su uno dei miei spot preferiti. Nonostante i 24 metri di profondità, lo sfondo bianco permette di individuare una sagoma che, come un serpente, tiene la posizione in corrente. Un grosso grongo? Penso. Inizio la planata silenziosa, non muovo un muscolo. Mano a mano che mi avvicino capisco che è lei. Mi allungo, nel mentre che in testa scorrono le immagini dei mille video visti dei tanti campioni che cadono sulla sua verticale, e con un tiro millimetrico seccano il pescione, arrivo a poco più di cinque metri. Sono prossimo a premere il grilletto, ma in quel mentre il ricciolone parte, ha una reazione inaspettata rispetto alla mole, come se fosse un pesciotto di qualche chilo. Risalgo carico di rabbia, pensando che anche stavolta la bestia nera continua ad averla vinta. Vado in gommone, il tempo di sbollire, schiarirmi le idee e decidere cosa fare.
Ci riprovo, rientro nello stesso spot. Ad aiutarmi per riprendere il feeling e la concentrazione persa, ecco un branco di grosse palamite che sfila durante un aspetto. Le punto con stizza, quasi come per vendicarmi su di loro per la mancata cattura precedente. Mi fermo, ci penso: e se fossero così intimorite perché braccate? Neanche il tempo di pensarlo che sul bordo della secca noto la grossa testa che mi punta. E’ lei, la mia bestia nera! Quando sembra a un passo lascio partire il colpo. Il turbinio di emozioni dettato dal momento mi fa anticipare il tiro, rendendolo distante e conseguentemente basso. Vedendo la scena come se fosse al rallenty, continuo la risalita con il ripetermi che la perderò. Pensiero che mi tormenta per tutto il tempo, sino a quando, dopo un momento di stallo da parte del pescione e dopo aver impugnato il secondo fucile, riesco ad avvicinarla tanto da doppiarla. Da lì una scarica di emozioni con la consapevolezza di aver chiuso un cerchio e aver finalmente vinto la mia bestia nera».
Dall’asta alla pentola
Sarebbero tante le ricette di cui poter parlare con Marco. Per lavoro e per passione ha sperimentato ai fornelli tutte le prede che ha catturato, anche le più comuni come la salpa e i tordi.
«Nessun pesce è povero se viene valorizzato con una buona ricetta e con la giusta cottura - mi dice con piglio sicuro -. Tra i tanti consigli che negli anni sono riuscito a rubare, ce ne sono due tanto semplici quanto efficaci. Il primo è la gestione delle temperature. Erroneamente, si cuoce il pesce al forno dando le stesse temperature delle carni terrestri. Seccando così la polpa e rovinando il tutto. Gestire una cottura stando nei 140/150 gradi massimi, permetterà di non seccare la polpa, mantenendo i liquidi e i gusti della preda cucinata».
Altra tecnica di preparazione riguarda il dentici, preda che Marco cattura spesso e a cui ha dedicato maggiore attenzione dal punto di vista culinario. Secondo lui è meglio preparare un pesce per intero quando il suo peso è entro i 2/3 chilogrammi. Su pesci superiori, la scelta vincente è quella di sfilettarla, non solo per una migliore cottura, ma anche per un miglior vantaggio in cucina. Infatti, così facendo si potrà sfruttare al meglio le parti dalla polpa nascosta, come quella la testa, per preparare un buon primo, e la carne incastrata tra l’ossatura per realizzare una tartare o un pestato per guarnire i piatti.